Nel villaggio di Petrovcy, di tremila case, ci sono quattro negozi e un ambulatorio medico, la scuola rumena e quella polacco-ucraina, la chiesa ortodossa, cattolica e il cimitero battista. A Petrovcy, i contadini parlano almeno tre lingue. C’è un asilo che finge anche da istituto che accoglie i bambini che hanno entrambi i genitori all’estero e nonni troppo anziani o troppo presi per occuparsi di loro oltre alla terra, alle bestie e alla casa. Le case in mattone sono quelle delle migranti. Il mattone è il frutto e il segno delle loro rimesse. Due terzi delle donne di Petrovcy è partito in migrazione ma, in Bucovina, paesi interi sono rimasti senza donne. La gente racconta che a Hotin, l’anno scorso, è nato solo un bambino e a Kerstentsy, durante i festeggiamenti del patrono, gli uomini ballavano con gli uomini. Sulle tombe di Dovjock, di Priprutie, di Magala, di Novoselica crescono lamponi e fragole selvatiche.
Le donne che partono per l’Italia lo fanno di notte, alle 3, come ladre. Il pulmino passa davanti a casa loro, mandano un bacio dal finestrino e si mordono le labbra. I pulmini si trovano nello spiazzo di un benzinaio fuori dal paese e gli autisti si ripartiscono migranti e bagagli. Liliana tiene la figlia per mano: «Non posso ancora chiedere la riunificazione, ma non ce la facevo più ad avere un pezzo di qua e uno di là e sono tornata a prenderla». Spiega che la bambina viaggia con un permesso turistico fino all’Ungheria, poi da clandestina. Tolik, l’autista, sputa per terra e le dice che certe cose vanno dette prima. Manda tutte dentro e sbatte le portiere. Flora si sbriga a caricare due sacchettoni, i vestiti di nozze per il figlio e la futura moglie italiana. Viaggia con altre tre compaesane e una donna che viene da fuori, cinquant’anni suonati, un paio calzettoni di lana grossa e una spilla d’oro puntata sul maglione. Appena prima della frontiera, Tolik la mette su un taxi insieme a due polacchi scesi da un altro pulmino. Dice che il taxi è meglio per chi esce per la prima volta dal Paese, di lasciarlo fare. La donna rincarta la coscia di pollo, le rimangono le mani unte. Sono le 13. La polizia di frontiera saluta gli autisti, scherzano e intascano una ventina di euro a pulmino. Il numero di pulmini in coda non si conta. Ci sono donne che raccontano di aver fatto tre giorni di fila per uscire. Dopo pochi chilometri dalla dogana ucraina, quella ungherese. Le radio sono accese, le portiere aperte. Gli autisti scendono a sgranchirsi le gambe, le donne, dentro, sonnecchiano. Ci sono pulmini che vengono svuotati di ogni singolo pacco e ogni pacco aperto, i vestiti rigirati, le buste violate, perfino i cioccolatini scartati. Alla prima piazzola di sosta, in Ungheria, i pulmini si aspettano. Liliana incontra un’amica, con la figlia della stessa età della sua. Le bambine giocano un momento, in silenzio, e le madri parlano. La donna del taxi arriva tardi, l’interrogatorio è stato lungo. Riprende posto sul pulmino, ma non ripartono. I cellulari squillano, gli autisti fanno un bilancio dei presenti e degli assenti, e calcolano i cambi di turno delle guardie alla frontiera successiva. Si rimettono alla guida per fermarsi dopo poche ore, in un autogrill. È tutto un sonno e un risveglio, un cambio di passeggeri, il passaporto da presentare, una valigia da risistemare e da rispondere a una domanda che nessuno capisce più che ora è, dove si è e cos’è quel dolore dentro.
Nuova frontiera, altro autogrill e bilancio, altra attesa. Caffè e sigarette, i biscotti sugli scaffali, gli scaffali sotto i neon. Le donne vanno in bagno, entrano e scendono dal pulmino, mangiano nel parcheggio una cena fredda, il tempo non passa. Tramonta il sole, escono le zanzare. Sul pulmino, per un momento, rimane da sola la donna del taxi. Piange senza rumore. Se ne accorgono tutte, ma nessuna le dice niente. Le lasciano la porta aperta e una frase che sa più di avvertimento che di consolazione: «È troppo presto per piangere».
Arrivano al confine con l’Austria alle 23. I pulmini si fermano, Tolik scende, si compra un Red Bull, mangia semi di girasole e sputa le pelli. Raggiunge gli altri autisti, le donne riprendono a dormire appoggiate ai vetri o le une alle altre. Non è sonno, solo una spossatezza che le consuma, una notte rappresa sui finestrini. All’una e mezza, Tolik accende la luce del pulmino, sposta la donna del taxi su un altro, insieme alle sue valigie e alla cena non consumata. Non la rivedranno più, sapranno soltanto che in Italia non ci arriverà. Al suo posto sale una lituana. Davanti Liliana. Flora e la lituana in fondo, con la bambina. Copritela bene, con la coperta e tutte le giacche. In mezzo le altre tre, altre giacche e sporte in giro. I passaporti. Ubbidiscono. Il pulmino si mette in fila, nel posto che gli lasciano altri due. Tolik mette i passaporti uno dopo l’altro secondo un ordine che conosce solo lui, perché c’è un ordine nella presentazione dei passaporti come dei pulmini alla frontiera. Liliana sussurra qualcosa a Tolik. Lui è secco, le dice di tacere. Abbassa il finestrino, passa i documenti alla coppia in uniforme. Non parla la loro lingua, ma sa bene che gli austriaci non accettano mazzette. Dichiara sei persone oltre a sé, tre in mezzo, due in fondo e Liliana. La poliziotta conta i passeggeri e i passaporti, li apre uno a uno e verifica foto e facce. Il collega, intanto, va a controllare il bagagliaio. Lei apre la portiera, tutte fuori, dice in un gesto. Flora e la lituana passano a fatica, ma non reclinano i sedili davanti. La bambina è nell’angolo in fondo, in un nascondiglio da cartone animato, fra cappotti e borse. La poliziotta muove la torcia nel ripiano in alto, dove sono stipati borsette e zaini, poi sotto i sedili, con altre borse e sacchetti. La luce tocca la coperta. La donna fa una domanda, ‘kinder’ dice. Tolik finge di non capire, lei insiste, apre la bocca, ma il poliziotto chiude il bagagliaio e il rumore si schiaccia sulla sua voce. La polizotta fissa Tolik, forse aspetta che ripeta. Il collega però passa al pulmino successivo, chiede i documenti, inizia la perquisizione seguente. Lei esita, poi, spegne la pila e lo raggiunge. La fortuna dura un secondo.
Ripartono senza fiato, si fermano al primo autogrill. Tolik spegne il motore, ma non scende. Accende la luce del pulmino e le guarda. Liliana gli mostra il collo che si è pizzicata a sangue. Piange e lo abbraccia. La bambina mette fuori la testa e dice che non tornerà più in Ucraina fino al matrimonio e scoppiano a ridere. Scendono tutte insieme, ordinano un tè al bancone e si siedono a un tavolo come se fosse giorno, come se fosse casa. Squilla il cellulare di Liliana: l’altra mamma e sua figlia, due pullman dietro il loro, non sono passate. Il poliziotto austriaco le ha fatte scendere lì, a metà del viaggio, in mezzo alla notte. Si metteranno dall’altra parte della strada ad aspettare i pulmini che dalla Mitteleuropa tornano verso Est, come se l’Est fosse un posto dove andare. L’Est è il collasso sovietico, la fame di terre fertili e dolci come quadri di Klee, l’Est ha l’odore di retrovie abbandonate, d’inverni duri come pietre e notti più profonde del buio.
Il viaggio prosegue a occhi aperti sull’alba. L’Austria è un’autostrada sgombra. Passano la frontiera italiana senza nemmeno accorgersene, nessuna sosta, nessun controllo. Sono arrivate.