La cura, l’addio

Accanto al letto di Luigi c’erano due sedie, per la figlia Angela e per Liuba, la badante. Liuba preferiva stare in piedi però, appena arretrata e con la schiena in avanti su quel vecchio dal volto senza rughe, ma dalle labbra prese nel buco della bocca senza dentiera.  

Angela arrivava nel pomeriggio, dopo il lavoro. Esaminava i lividi che erano apparsi negli ultimi tempi sulle gambe di suo padre, ci passava la crema. Non ne aveva ancora trovata una efficace e non si dava pace. Liuba, intanto, preparava la bacinella d’acqua e gli asciugamani puliti per cambiarlo. Lasciavano il letto dopo mezz’ora, Liuba buttava i panni sporchi in bagno, Angela, in cucina, metteva a bollire l’acqua per una tisana. Avevano pochi anni di differenza, ma sembravano distanti di secoli.  

Angela si tratteneva fino a sera, quando Liuba chiudeva a chiave la porta di casa e tornava a mettere la crema sui lividi del signor Luigi. Insisteva in quei massaggi come se quei lividi li avesse portati lei, con le sue mani contadine. Massaggiava seguendo il ritmo delle sue preghiere ai figli, al marito ubriaco e a quell’uomo allettato, mentre fuori le finestre si accendevano una dopo l’altra e le televisioni cominciavano a parlare.  

Una sera, anche lei parlò: «Mia mamma è morta di infarto a sessantaquattro anni. Dopo due anni, è morto mio papà, aveva sessantasei anni. Ha detto: “Figli, venite, perché mi sento male”. Domenica mattina sono arrivati i miei fratelli e le mie sorelle e abbiamo acceso una candela. Da noi, in Ucraina, si accende una candela e la si dà al moribondo, che la tenga con sé, perché dove va è buio. Iniziata la notte, mio padre non ci aveva ancora lasciati e i miei fratelli e sorelle sono rientrati a casa loro. È stato verso mattina che mi ha chiamato: “Liuba, svegliati, perché la morte è arrivata accanto a me”. Ha preso i soldi che aveva preparato sotto il cuscino: “Questi prendili, perché dove vado non ce n’è bisogno. Usali per i funerali, non chiamare molte persone, non preoccuparti e non rattristarti, vado da vostra mamma. Non piangete, fate quello che c’è da fare e state bene”. E ha chiuso gli occhi, aveva detto tutto. Erano le cinque del mattino». Angela la sentiva a mala pena. «Da noi, i vecchi rimangono nelle famiglie ed il figlio più piccolo si occupa di loro. Non ero la più piccola ma, quando avevo sei anni, i miei avevano deciso che sarebbe toccato a me. I miei fratelli e sorelle sono andati ad abitare via, io invece, anche dopo che mi sono sposata, sono rimasta a casa con loro. Mi sono morti entrambi fra le braccia». S’interruppe e guardò Angela: «Quando sono con suo padre, penso al mio. Quei lividi che gli vengono sulle gambe, non sono io che li ho fatti. Cerco di toglierli con le sue creme, ma non se ne vanno…» Angela avrebbe voluto dirle che non la sospettava minimamente, che quelle ecchimosi erano dovute a problemi di circolazione e non sarebbero andate via. Avrebbe anche voluto scusarsi se era troppo apprensiva, se le ripeteva tre o quattro volte la stessa cosa, le mostrava come fare e poi faceva lei. Invece, fece di no con la testa e le chiese l’età. «Sono nata in Ucraina nel ‘51. In famiglia ero la quarta. Abbiamo studiato tutti, io in particolare, per undici anni». Mise la minestra sul fuoco, i vetri si appannarono. «Negli anni ‘70 sono entrata nel kolchoz. Sono diventata comunista, avevo la tessera del partito. Solo chi aveva studiato o chi si distingueva nel lavoro poteva entrare nel partito. Nel mio paese c’erano quaranta comunisti e nel kolchoz seicento lavoratori, centocinquanta muratori, cento contadini, cinquanta autisti, mille bovini, cinquecento mucche da latte, maiali… Facevamo contratti di lavoro anche per operai di kolchoz lontani. Io ero presidente del sindacato dei lavoratori, prendevo duecento rubli, il capo ne prendeva duecentoquaranta, ero la seconda persona che prendeva di più. Ero comunista, avevo studiato. Ho lavorato fino a quando è caduto il regime, nel 1989». Tacque come se la storia si fosse risolta lì e lei stessa fosse finita. Spense il fuoco e travasò la minestra in una tazza. «Ora vada che si è fatto buio» disse, e fu la prima a lasciare la cucina.  

Angela scese le scale senza accendere la luce. “Io sono impiegata. Ho un marito e una figlia, un appartamento di proprietà e qualche amica con cui scambiarmi i regali a Natale. Lavoro nello stesso ufficio da quarant’anni ormai, da quando mi sono diplomata. Non ho compiti di responsabilità né li ho cercati. Sono stata felice, da giovane, con un lavoro nuovo nuovo, il matrimonio e la bambina. Poi, pian piano è andato tutto sfumando e non mi è rimasto più niente che mi addormentasse la sera col sorriso. Non sogno nemmeno più, dormo subito. Quando si è ammalata mia mamma, ho pensato che il mio posto era accanto al suo letto e mi ci sono messa. Subito dopo, si è ammalato mio padre, e fra l’una e l’altro sono dodici anni che non mi allontano da quella stanza. Non me lo ha chiesto nessuno, mi ci sono messa io”. Questo avrebbe detto se avesse dovuto raccontare di sé, ma non arrivò il suo turno e arrivata al cancello di casa sua, cercò le chiavi in borsa e lasciò andare anche quel pensiero.  

La notte in cui il signor Luigi morì c’erano solo loro due, Angela seduta accanto al letto e Liuba in piedi, appena arretrata. Angela piangeva in silenzio e Liuba attendeva. Dopo un lungo momento, portò la bacinella e il sapone. Angela, allora, tirò fuori dall’armadio il completo elegante e le lenzuola più belle. Si muovevano nella penombra senza urtarsi, in una sequenza di passi e mani che lavavano il corpo, lo massaggiavano un’ultima volta di crema e lo rivestivano. Gli allacciarono i bottoni della camicia, della giacca, sollevarono le gambe di legno molle, il pantalone, l’ultimo sforzo, l’ultimo bottone. Angela andò alla ricerca la dentiera, che non era nella cassettiera né fra i farmaci. Chiese a Liuba, ma era arrivata da poco in quella casa e non lo sapeva. Sostituiva Vera che era tornata a casa, perché lavorava così, lei, rimpiazzando compaesane. Dal signor Luigi era la prima volta che andava e non sapeva dove fosse la dentiera. «Ci teneva ai suoi denti» prese a ripetere Angela guardando nel comò, nell’armadio della biancheria, nei mobiletti del bagno. Cercò in cucina e in tinello, perfino nelle scatole delle fatture. E non si chiese a chi stesse telefonando Liuba a quell’ora della notte, ma trattenne il respiro quando riattaccò. La sentì aprire l’armadio e il portagioie. «Signora Angela!» gridò Liuba con la dentiera in mano. Lei le corse incontro e per un momento rimasero abbracciate. Angela, poi, sciacquò la dentiera, la asciugò con cura e la mise in bocca a suo papà. Liuba accese una candela. Erano le cinque del mattino.  

 

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