“Il vestito che mi hai mandato per il mio compleanno è bellissimo, mamma, anche se un po’ mi dispiace che il completo dell’anno scorso non mi vada più bene. Avevamo fatto un sacco di giri prima di sceglierlo!
Il reggiseno, invece, ora tiene. Avevi riso quando l’avevo messo e mi cadeva da tutte le parti. Subito, però, le tue labbra avevano cominciato a tremare ed eri andata a prendere le forbici che usiamo per i fiori in giardino, quelle grandi. Mi avevi tagliato la treccia. Lo so, non ci saresti più stata tu a pettinarmi. Poi, avevi tagliato anche la tua, la tua lunga treccia d’oro. Ero più spaventata per te che per me, ma avevi alzato le spalle, “uguali” avevi detto, e ci dicevano tutti che sembravamo due sorelle. Non sono bella come te, ma mi sentivo comunque speciale, mi sentivo grande e coraggiosa, che in fondo è la stessa.
Quando la nonna mi vede triste, dice che devo autorizzarmi a piangere, ma finisce sempre che è lei, a piangere. Allora, si affretta a tornare alle sue faccende e io rimango in cucina a fare i compiti. Senza di te, in casa c’è un silenzio duro e a volte mi montano le lacrime, ma non scendono, rimangono bloccate da qualche parte tra il cuore e gli occhi, dove la tua voce, il giorno della tua partenza, mi dice ancora che sei orgogliosa di me.
È passato un anno. Non ho mai aperto la scatola dove abbiamo messo le nostre trecce, ho tenuto i capelli corti e sono cresciuta davvero (la nonna dice che non ha mai visto una bambina crescere tanto in fretta). Coraggiosa la sono, non sempre forse, ma sempre un po’ di più. E la prossima settimana, mamma, compirò gli anni nei vestiti nuovi.
Spero che questa lettera ti arrivi presto”.
“Le medie sono la tua scuola, mamma, e ancora, quando passo davanti alla classe dove insegnavi tu, mi si ferma il respiro e i ricordi degli ultimi giorni prima che partissi tornano tutti in una volta: le visite delle zie, le mie torte preferite una dietro l’altra, le carezze che si allungavano ogni sera e i tuoi occhi, sempre sull’orlo del pianto. Ho imparato a vivere senza di te, ma ne avrei fatto a meno. Nessuno mi ha chiesto il parere, e forse neanche il tuo. Altrimenti, perché papà continua a dirmi che non c’era scelta?
Iryna è tornata a prendere suo figlio, l’hai saputo? Hanno viaggiato con un visto turistico fino all’Ungheria poi, nonostante i soldi che aveva preparato, le guardie austriache non li hanno fatti passare. Li hanno lasciati lì, in mezzo alla notte, e alle prime ore del mattino, uno dei pulmini di ritorno li ha riportati indietro. Dopo quindici giorni, ci ha provato ancora. Ha nascosto il bambino in un buco del sedile posteriore. Ha pagato anche per il buco, perché Grisha, l’autista, aveva appena comprato il pulmino e voleva che il sedile tornasse nuovo. È stato lui a raccontarlo a papà. Gli ha detto che sono stati beccati anche quella volta, però, che gli austriaci sono dei cani, così ha detto. Papà ha visto che stavo ascoltando e a cena ha voluto spiegarmi che non bisogna farsi prendere dalla fretta: dobbiamo aspettare il momento giusto per ritrovarci insieme a te. “È come coi funghi – ha detto – Perché escano, ci vuole la stagione giusta. Se si va nel bosco troppo presto o troppo tardi, non se ne trovano. Un giorno, una sola mezza giornata, può fare la differenza”. Da quando te ne sei andata, ci va tutti i giorni, lui, nel bosco”.
“Il prof. che rimpiazza quella di lettere è arrivato la scorsa settimana. Ha voluto sapere chi, in classe, aveva un genitore all’estero e più della metà ha alzato la mano. È appena arrivato dalla regione di Kiev e non conosce la situazione in paese. Andryi gli ha spiegato che sono le donne a essere richieste all’estero, per stare dietro ai vecchi dell’Europa occidentale. L’ha detto con disprezzo, però, come se non fosse un lavoro, quello. E quel suo tono mi ha fatto arrabbiare. “E allora?” gli ho fatto io. “Allora? Sono tutte delle puttane!” ha urlato, ed è scappato. In classe è venuto il gelo. Il prof. si è alzato e ha richiuso la porta che Andry aveva lasciato aperta. Ci ha guardati senza sapere cosa dire. Ivan, allora, gli ha raccontato che la mamma di Andry è stata una delle ultime, ma anche lei se n’è andata, senza farne parola in famiglia. E da quando è partita, non c’è ubriaco peggiore del padre di Andry. “Dio sa quanto valeva quell’uomo, cento ne valeva, dice sempre mio papà”. Il prof., allora, ha scritto alla lavagna Cosa significa diventare grande? E ha detto di rifletterci, che ne discuteremo in classe uno dei prossimi giorni”.
“Ho riflettuto alla domanda del prof., mamma. Non so se in classe riuscirò a dire quello che penso, ma con te, per lettera, posso farlo. Per me, diventare grande vuol dire accettare che nulla accada come mi è stato fatto credere da bambina. Mi è stata raccontata una storia di mamme che crescono i loro bambini e di papà forti che si prendono cura delle loro famiglie. Le mamme, invece, se ne vanno e non tornano più, gli uomini sono perduti. E le vecchie non sono sagge, ma semplici come animali. Diventare grandi è capire la bugia degli adulti. È il papà che picchia la testa contro gli alberi del bosco e, a sera, quando si addormenta sul divano, la nonna lo copre e scappa via spaurita. Trattengo le lacrime da farmi venire il male di testa. Non avevo conosciuto la tristezza prima che partissi.
Eri la migliore insegnante del distretto e la nonna tiene sul buffet tutti i premi che hai ricevuto. Dove sei adesso, invece, hai tutto da imparare, la lingua, il mestiere, perfino a far da magiare. “Nella vita non si smette mai d’imparare – mi scrivi nelle tue lettere – Ma quello che ho capito soprattutto, è che la mia vita è legata alla tua, ne dipende fin nei minimi dettagli, e qualunque sia la distanza che ci separa, vivo di te”. Così mi scrivi, e questa frase l’ho imparata a memoria, perchè quando ricevo le tue lettere, penso che tutte queste parole che ci scambiamo, non sono che coaguli di sangue. Una volta, ho osservato una ferita che mi ero fatta sul ginocchio, si rimargina dai bordi verso il centro. Sotto, si forma una nuova pelle che, quando la crosta si stacca, è trasparente. Le cicatrici, all’inizio, sono talmente lisce e sottili che a guardarle ci si scivola sopra, poi prendono colore e finiscono per confondersi col resto e solo chi sa che lì c’è una cicatrice può ancora vederla. Il tempo di guarigione dipende dalla larghezza e dalla profondità della ferita, questa è la storia della cicatrizzazione. E quando si tratta di diventare grandi, è lo stesso: si diventa grandi per forza di cose, ma quello che fa la differenza, sono la larghezza e la profondità delle braccia di tua madre, o delle sue parole”.