Incontravo Maria in via Bandini, a metà strada fra casa dei miei, dove ancora abitavo, e quella dei miei nonni.
Per periodi, ha anche lavorato da loro, sostituendo qualche compaesana rientrata a casa in vacanza. I quindici anni di malattia, di mio nonno prima e di mia nonna dopo, sono stati accompagnati da diverse donne, tutte di Petrovcy, un villaggio dell’Ucraina meridionale di forte emigrazione.
Quando ci siamo conosciute, Maria aveva trentasette anni. In Italia ne ha trascorsi quattordici, il tempo, per i suoi due bimbi piccoli, di diventare adulti e partire a loro volta. Quattro anni fa, infatti, quando è tornata definitivamente a Petrovcy, suo marito e la figlia maggiore sono partiti per il Belgio, e il minore si sta preparando a raggiungerli. «Non ha scelta – dice di lui – C’era poco lavoro prima e, con la guerra, non c’è nemmeno quello. I giovani se ne vanno tutti, tornano in paese per sposarsi e costruirsi una casa che, se succede qualcosa, hanno un punto d’appoggio, ma poi ripartono. Il paese è vuoto dei giovani e, adesso, si è svuotato anche di tutti gli altri, uomini, donne e bambini. Io rimango. Ci ho rimesso tanti anni e tanta salute per questa casa e non voglio trovarmela derubata. È la mia casa, mi dispiace lasciarla. Resto con i miei tre cani e tante stanze disabitate. La stanza di mia figlia, l’avevamo fatta come la voleva lei, grande e bella. Ci entro una volta al mese a togliere le ragnatele. A cosa è servito?, mi chiedo. La casa è felice quando tutti sono insieme. Mio marito, però, non può tornare, altrimenti viene arruolato e mia figlia non vuole tornare. “Hai voluto che prendessi il diploma e l’ho preso, mamma – mi ha detto – Ma per trecento euro al mese, non lavoro. Vado da papà, a Bruxelles”. E il Belgio le piace, ha un lavoro in una fabbrica di vestiti e i suoi amici. All’inizio, avevo pensato di andare anch’io da loro, perché sembrava che tutta l’Ucraina sarebbe stata bombardata. Poi, abbiamo visto che ci risparmiavano, noi. Hanno colpito gli aeroporti e le ferrovie per impedire i rifornimenti di armi, c’è il coprifuoco fino alle cinque del mattino e tiriamo le tende pesanti per fare buio, ma non ci hanno ancora attaccato. Per quello, qui, si sono fermati tanti profughi».
«Una volta mi mancavano tante cose, adesso chiedo solo la pace e la salute, mi basta questo. Neanche alla libertà penso più. La libertà è come l’aria, quando ce l’hai non ti accorgi di averla, ma quando ti manca, capisci quanto vale. Da bambina, da ragazzina non sapevo cosa fosse, non me lo chiedevo neanche. Da grandi, invece, ci si rende conto che ciascuno la capisce a modo suo. Ma in realtà, la libertà l’abbiamo solo nel pensiero, perché possiamo pensare a quello che vogliamo. A parole non si può dire la propria opinione, con le parole si creano muri. E con le azioni anche, le nostre azioni poi sono costrette in tante regole. Fino alla caduta del muro, nel ’91, c’è stata poca libertà da noi, le cose poi sono cambiate, ne abbiamo avuta di più, la libertà di espressione, di religione… Ne abbiamo anche dovuta sacrificare, però, per la famiglia e per una vita più tranquilla. Da migrante, non sono stata libera, avevo documenti e orari da rispettare, non potevo andare dove volevo. Non ho rimorsi per quegli anni, li ho scelti io, per il bene della mia famiglia. Non posso dire di avere avuto una vita facile, ma sono stata contenta di come è andata. E se poi toccherà anche a me scappare, scapperò. Non si sa dove ci porterà questa guerra».
Maria è nata nel 1965. Dopo la morte di suo padre, quando era ancora giovane donna, ha lavorato come impiegata in una fabbrica manifatturiera in città, frequentando, la sera, l’università di economia. Con la caduta del regime comunista, la ditta ha chiuso e Maria è rientrata dai suoi, in campagna. Ha lavorato in una cooperativa agricola che ereditava in parte le caratteristiche del kolchoz sovietico, con un salario molto basso, però, decide quindi di partire per la Grecia alla ricerca di un lavoro più remunerativo. Ha ventinove anni. In Grecia, lavora a casa di persone anziane, cambiando più di una volta e “passando dei brutti momenti”. Tornata in Ucraina dopo due anni, si sposa e nasce la sua bambina. Pochi mesi dopo, il marito parte come muratore per il Belgio, per ritrovare Maria e la sua famiglia – la madre, il fratello, la sorella con marito e figli – a Mosca dove avviano le procedure amministrative per emigrare negli Stati Uniti presso parenti che vivono là da tempo. Un secondo bambino viene alla luce durante le pratiche burocratiche. Avevano appena ottenuti i permessi quando, dopo gli attentati terroristici dell’11 settembre, l’ambasciata americana chiude le frontiere e rinvia a gennaio i nuovi ingressi. In dicembre, però, il bimbo muore all’improvviso, inspiegabilmente, e lei rinuncia all’America per rimanere nel paese dov’è sepolto. Tutta la famiglia sceglie di restare con lei. In febbraio, il marito di Maria si ammala gravemente e viene ricoverato all’ospedale. Le tasse dell’ospedalizzazione e delle cure sono ingenti, dopo la caduta dell’Unione Sovietica il sistema sanitario è interamente a carico degli utenti, e loro s’indebitano pesantemente. Guarito durante l’estate, parte immediatamente per andare a lavorare a San Pietroburgo, dove resterà pochi mesi perché il salario è misero. Qui, allora, la decisione di Maria di partire per l’Italia, novembre 2002. Con i soldi che manda al marito, pagano i debiti e costruiscono una casa tutta loro, ma a causa dell’inflazione dei prezzi del materiale edile, la permanenza di Maria in Italia non ha fine.
«Non ho mai conosciuto nessuno a cui soldi bastassero» dice. E ride, oggi, nel dirlo. Ci sentiamo via WhatsApp, lei dalla sua grande casa alla lisiera del bosco di Petrovcy, in Bucovina o terra delle querce. «Chiama quando vuoi – mi saluta – Non ho bambini da mettere a letto e la guerra, da queste parti, al momento è in silenzio. Chissà, forse, a noi, ci tengono per dessert».
Questa rubrica ha preso le mosse nel villaggio Petrovcy e, dopo aver parlato di guerra e rifugiati, della storia dell’Ucraina, delle sue migranti, di vite prese fra partenze e ritorni, oggi si chiude lì. A Maria e a tutte le ucraine che sono intervenute in questa rubrica, va la mia più grande stima e il mio riconoscimento, oltre che l’augurio di ogni bene.