RUniPace è la Rete delle Università italiane per la Pace a cui aderiscono gli Atenei che ispirano la propria azione ai principi fondanti dell’ordinamento costituzionale italiano e internazionale, relativi al ripudio della guerra, alla fede nei diritti umani fondamentali e al contrasto alle diseguaglianze e alla povertà. Antonio D’Aloia, che interviene oggi su pace e diritto, è Ordinario di Diritto Costituzionale all’Università di Parma e Direttore scientifico del Centro interdipartimentale di ricerca sulla bioetica (UCB – University Center for Bioethics).
Qual è il legame fra pace e diritti?
Il legame tra pace e diritti umani è profondo, molteplice, intuitivamente ravvisabile nel carattere distruttivo e devastante della guerra, di tutte le guerre. La guerra è l’antitesi del diritto come spazio di regole condivise in cui possono trovare riconoscimento e promozione i diritti delle persone, senza distinzioni legate al sesso, alla razza, alla religione, alla lingua, alle opinioni politiche, alle condizioni personali e sociali, come recita la prima parte del bellissimo art. 3 della nostra Costituzione. La guerra uccide, fomenta l’odio e la conflittualità, separa le comunità, produce macerie umane e materiali, colpisce indiscriminatamente l’ambiente, la natura e le testimonianze culturali e storiche, acuisce la povertà e le diseguaglianze.
Ecco perché una Costituzione come la nostra, che costruisce la sua identità sulla garanzia dei diritti inviolabili dell’uomo, della pari dignità sociale, dell’eguaglianza anche sostanziale, sul principio di solidarietà verso gli altri (nello spazio e nel tempo), una Costituzione, per usare le parole di Giorgio La Pira, “umana, perché indaga obiettivamente le strutture dell’uomo, perché umana è la concezione del corpo sociale (…), del diritto che costituisce la volta dell’edificio”, non può che esprimersi nei confronti della guerra attraverso un rifiuto radicale, come testimonia l’uso del verbo ‘ripudia’. Nell’art. 11, che va letto come un ‘corpo’ unico, la pace è la condizione di una vera giustizia tra le Nazioni.
Il costituzionalismo democratico ha bisogno della pace per sviluppare la sua ricerca di un mondo più giusto e coeso, dove le ragioni della forza siano sostituite e governate dalle ragioni del diritto, che implicano cooperazione, reciprocità e considerazione verso le esigenze e i problemi dell’altro. A sua volta, la pace è anche un diritto, individuale e collettivo al tempo stesso.
La storia dei diritti attraversa le fasi del costituzionalismo e le caratterizza. Si è parlato di ‘generazioni’ di diritti fondamentali, volendo sottolineare proprio questa capacità del linguaggio dei diritti di adattarsi ai problemi e alle rivendicazioni degli individui e delle comunità, di assumere forme diverse capaci di leggere le dinamiche del reale. Dai classici diritti di libertà del costituzionalismo rivoluzionario di fine ‘700, si è passati ai diritti sociali connessi alle esigenze materiali di vita delle persone e alla concretezza della loro dimensione esistenziale, per arrivare ai diritti di nuova generazione legati al progresso scientifico e tecnologico, alla crisi ambientale, al pluralismo culturale, alla scoperta del carattere distruttivo della guerra, sia convenzionale che basata sulle armi di distruzione di massa.
Il diritto alla pace è emerso così, come un diritto insieme individuale e collettivo, delle generazioni attuali e di quelle future. Un diritto che ancora non ha una piena idoneità a essere giustiziabile, cioè rivendicato e tutelabile in un giudizio, ma che può manifestarsi in modi talvolta non meno efficaci sul piano della partecipazione popolare, dell’azione di movimenti e associazioni, del controllo dei giudici e delle Corti Costituzionali sulle decisioni delle istituzioni politiche e normative nel campo della politica estera e militare.
Come si manifesta nell’attuale guerra in Ucraina ?
Come tutte le guerre, l’aggressione russa nei confronti dell’Ucraina ha sparigliato totalmente il terreno del diritto e del confronto tra ragioni (storico-politiche) del conflitto. Nulla può giustificare quello che è successo e che continua a succedere in queste settimane, da ormai otto mesi. Le difficoltà che l’aggressore sta trovando nel mantenere le posizioni illegalmente conquistate e il sostanziale fallimento dell’iniziale obiettivo del conflitto lasciano il campo a un’insensata e folle opera di distruzione di città e infrastrutture civili, con bombardamenti che hanno l’unico scopo di seminare morte, terrore, devastazione, di privare milioni di persone delle risorse e dei servizi essenziali per una vita dignitosa, come acqua, elettricità, cibo.
I diritti del popolo ucraino (ma penso anche ai diritti di quella parte consistente del popolo russo costretta a piegarsi alle logiche di violenza di un regime autocratico e criminale, dove anche usare la parola ‘guerra’, per descrivere quello che sta accadendo in Ucraina, comporta il rischio di essere condannati a una pesante sanzione penale) sono stati totalmente annichiliti. E questa guerra lascerà ferite profonde e durature nel già fragile tessuto delle relazioni internazionali, anche se, come tutti auspichiamo, dovesse trovare presto la sua conclusione.
Milioni di persone hanno visto di colpo annullata la normalità della loro vita quotidiana. Un Paese che faticosamente (pur con qualche contraddizione che nessuno può negare) era ormai avviato a un percorso di democrazia e di sviluppo civile ed economico è stato brutalmente attaccato sulla base di motivazioni false, grottesche, che provano quasi a dissolvere l’aggressione al popolo ucraino nell’eterno conflitto tra le due superpotenze globali.
Non c’è dubbio che sia necessario, ora più che mai, mettere in campo tutte le opzioni negoziali e diplomatiche per porre fine alla guerra. Nessuno può pensare che questa guerra possa trovare una soluzione sul campo, che l’aggressore possa essere battuto militarmente. Ogni giorno che passa, porta con sé i rischi di una escalation globale e, addirittura, lo spettro di una deriva nucleare del conflitto.
Al contempo, penso che l’Ucraina vada sostenuta, economicamente, e anche militarmente. Che il diritto di resistenza del suo popolo non possa essere abbandonato alla palese asimmetria delle forze in campo. Sono consapevole che ci sono opinioni diverse, che vedono nell’art. 11 della Costituzione, un ostacolo assoluto alla possibilità che l’Italia aiuti militarmente (in questo caso, peraltro, solo con l’invio di armi) un Paese, anche se aggredito. Rispetto queste opinioni, ma la penso diversamente. La mia opinione è che il ripudio della guerra “come strumento di offesa alla libertà di altri popoli” comporti il divieto di fornire ad altre Nazioni un’assistenza che sia configurabile come aggressione indiretta alla libertà degli altri popoli; in questo caso, invece, si è cercato e si cerca di difendere una Nazione aggredita, brutalizzata da una logica imperiale di potenza, attaccata nella sua integrità territoriale, nella sua sovranità, e nella libertà del suo popolo. Nemmeno può essere sostenuto che siamo di fronte a una controversia internazionale rispetto alla quale varrebbe il divieto di intervento militare come ‘mezzo di risoluzione’. Quello che è successo dal 24 febbraio scorso è un’aggressione unilaterale, assolutamente priva di giustificazione sul piano del diritto internazionale.
Certo, non si può continuare all’infinito in una logica di assistenza militare ed economica che resti priva di sbocchi sul piano della soluzione negoziale del conflitto. Bisogna mettere in moto, con forza e decisione, ogni strumento diplomatico volto a favorire la ripresa dei negoziati e la fine del conflitto armato. La voce del diritto e delle relazioni internazionali deve prendere il posto delle armi, definitivamente. Ogni tentativo però, non dovrà prescindere dalla volontà e dalla partecipazione al negoziato, del popolo ucraino e dei suoi rappresentanti di Governo.
Un esempio in cui il diritto è stato chiave nella risoluzione pacifica di un conflitto
Guardando alla nostra esperienza repubblicana e costituzionale, abbiamo usato il diritto e le regole pattizie (poi rafforzate dall’art.6 della Costituzione) per risolvere pacificamente, anzi, per prevenire i rischi di conflitto legati alla presenza di minoranze linguistiche sul territorio italiano (si pensi in particolare alla specialità regionale concessa al Trentino Alto-Adige e alle forme di tutela garantite alle comunità alloglotte di lingua tedesca e ladina presenti in questa Regione).
L’esempio forse più importante, però, è la costruzione politica ed economica dell’Unione Europea, dopo che i suoi principali Paesi erano stati protagonisti, volontari e involontari, delle due guerre mondiali del Novecento. Il processo di integrazione europea, con tutti i suoi limiti e le sue insufficienze, resta il più grande esperimento politico dei nostri tempi e, al tempo stesso, la prova che la scelta di stare insieme, e di sottoporsi reciprocamente a limitazioni di sovranità, di regole condivise, di principi comuni e di procedure collaborative, può essere un fattore decisivo per un futuro di prosperità e di pace. Questo ordinamento di nuovo genere, nella sua irrisolta (e forse irrisolvibile) oscillazione tra ipotesi federali e modello intergovernativo, ha garantito all’Europa settant’anni di pace, di progresso economico e sociale, e non è un caso che continui a essere un punto di riferimento attrattivo per quei Paesi che vengono da un passato legato alle tragedie del ‘900.