“Di cosa parliamo quando parliamo di pace?” è la domanda all’origine di questa rubrica che ha interrogato i campi dell’economia, dell’ecologia, del diritto, della cura, del genere, della religione… Pace e testimonianza condividono la stessa materia, lo stesso bisogno di avvenire. Ed è in questa direzione, rivolta al domani, che si chiude questa carrellata di voci sulla pace.
Qual è il legame fra pace e testimonianza?
Quando commentiamo delle immagini di guerra con dei bambini o quando parliamo loro di conflitti passati e presenti, lo facciamo con la convinzione che tali drammi non debbano ripetersi. La rievocazione sociale di tali eventi, cioè, è legata all’imperativo morale del “mai più”. Purtroppo, però, il racconto dell’orrore non è sufficiente a immunizzare contro l’orrore, sapere quello che è accaduto nei campi di concentramento nazisti, non ha impedito i massacri dell’ex Jugoslavia o l’attuale guerra in Ucraina, con le rispettive fosse comuni, gli stupri e decine di migliaia di genti in fuga.
Che riguardi episodi attuali o lontani, la memoria collettiva vorrebbe essere una bussola per l’avvenire e un antidoto ai conflitti, ma la sua evocazione è in qualche sorta “falsata” da un presente che seleziona gli episodi da scartare, da ricordare e interpretare. La memoria collettiva, infatti, è uno strumento politico funzionale agli interessi e alle rappresentazioni di chi la dirige. Perché funzioni, inoltre, è semplificata in modo da fornire appigli diretti alla definizione del senso d’identità e di appartenenza comunitaria, in modo da distinguere gli autoctoni e gli stranieri, le vittime e gli aggressori, i buoni e i cattivi. Il problema, come affermava lo storico americano Howard Zinn, è che una volta presa la posizione, che sia buona o cattiva, la si mantiene senza bisogno di pensarci più e anche gli atti più disumani diventano accettabili.
In I sommersi e i salvati, Primo Levi scrive: «È talmente forte in noi, forse per ragioni che risalgono alle nostre origini di animali sociali, l’esigenza di dividere il campo fra “noi” e “loro”, che questo schema, la bipartizione amico-nemico, prevale su tutti gli altri. La storia popolare, ed anche la storia quale viene tradizionalmente insegnata nelle scuole, risente di questa tendenza manichea che rifugge dalle mezze tinte e dalle complessità (…) La maggior parte dei fenomeni storici e naturali non sono semplici, o non semplici della semplicità che piacerebbe a noi».
È in questa “zona grigia” della memoria di cui parla Levi che ciascuno è chiamato a essere vigilante e a posizionarsi criticamente rispetto al proprio modo d’informarsi, d’interpretare i fatti e riferirli a propria volta, rispetto alle narrazioni a cui aderisce e che diffonde a sua volta, rispetto alla sua partecipazione alla memoria storica. La memoria, infatti, non basta alla pace, dobbiamo a elevarci a testimoni viventi di una cultura di pace.
Il vocabolario Treccani definisce il testimone come la «persona che, assistendo, avendo assistito, o essendo comunque direttamente a conoscenza di un fatto, può attestarlo, cioè farne fede, affermarne pubblicamente la veridicità, o dichiarare come esso realmente si è svolto». Naturalmente, il grado di distanza dal fatto gioca un ruolo importante: i famigliari e gli amici di un soldato o di sopravvissuto alla guerra, i giornalisti e i lettori che ne leggono le vicende in un reportage, non sono testimoni alla stregua del soldato e del sopravvissuto stesso. Eppure, ciascuno, a diverso grado, si può dire testimone di una verità storica che, per quanto circoscritta, parziale ed emotiva, non è incompatibile con quella di un’epoca. La verità dei fatti storici, cioè, non si contrappone a quella più sottile, ma altrettanto indispensabile, di un’esperienza. Al contrario, l’esperienza particolare permette di complessificare la memoria e la rappresentazione che ne viene data bilanciando generalismi e stereotipie con testimonianze alternative, virtuose, che permettono di fare un salto narrativo qualitativo, di dare luce al coraggio, al cambiamento, alla pace.
Come si manifesta nell’attuale guerra in Ucraina ?
Nel conflitto russo-ucraino l’impiego strumentale della memoria storica è evidente: Putin ha invaso l’Ucraina per denazificarla, perché nella memoria dei russi la più grande tragedia del Novecento è l’invasione nazista e che ha trovato, fra gli ucraini, dei collaboratori; d’altra parte, in Ucraina, è viva la memoria dell’oppressione subita dalla Russia e della grande carestia provocata da Stalin fra il 1932 e il 1933 che aveva fatto milioni di morti. Ciascun fronte sceglie – e manipola – la memoria che gli conviene. Le stesse posizioni prese dalle nazioni terze – di neutralità, di negoziato, di aiuto umanitario, di approvvigionamento di armi all’Ucraina… –sono giustificate sulla base di una memoria storica che condiziona determinate alleanze e alimenta certe diffidenze.
Rispetto ad altre, la guerra russo-ucraina ci è vicina geograficamente, vicinanza accresciuta dalle dirette trasmette dai mass-media e dai social networks, oltre che dalle ricadute che ci coinvolgono in prima persona (l’approvvigionamento in gas e cereali, l’accoglienza dei rifugiati, il dibattito sull’impiego di risorse pubbliche al sostegno umanitario e militare…). Questa prossimità ci rende a maggior ragione, e nostro malgrado, testimoni di quello che sta accadendo. Al tempo stesso, però, la distanza che rimane fra noi e la guerra – non siamo noi a combattere, a sopravvivere o a morire – ci consente di problematizzare la figura della vittima, dell’aggressore e anche del salvatore, e di prendere atto della distorsione che viene fatta della memoria storica, usata a giustificazione di certi schieramenti e di certe azioni d’offesa o di difesa. Soprattutto, però, ci mette nella posizione di fare luce su quelle azioni e narrazioni di pace spesso sottaciute che costituiscono tuttavia una falda sotterranea in grado di alimentare nuovi modi di fare e di essere, e nuove rappresentazioni della storia.
Quando la memoria è stata chiave nella risoluzione pacifica di un conflitto
La storica Annette Wiewiorka ha osservato che, nei primi anni del secondo dopoguerra, i sopravvissuti che volevano ricordare, non erano ascoltati o veniva loro consigliato di dimenticare. Dopo il processo a Eichmann, il dovere della memoria e la testimonianza sono stati inquadrati in una prospettiva giudiziaria. Oggi, sono diventate un imperativo sociale, prima ancora che una necessità personale.
Si è assistito a una democratizzazione degli attori della storia, a un orientamento verso gli “anonimi”, oltre che al ricorso diffuso alla testimonianza, legato al bisogno di combattere il negazionismo e al “dovere” del ricordo, perché quando i testimoni dei conflitti scompaiono, riemergono vecchi demoni. Non è un caso che, dopo la Seconda guerra mondiale, l’Europa ha cercato, fino a oggi, la stabilità della pace, e che lo scoppio del conflitto russo-ucraina abbia trovato un’Europa sprovveduta, incapace di farvi fronte non solo militarmente, ma anche intellettualmente. Alla fine della Seconda guerra mondiale, infatti, mentre la Russia rimaneva ancorata a vecchie pretese militaresche, l’imperativo del “mai più” portava l’Europa a scelte di stabilità e di crescita, di benessere economico, culturale, artistico.
In questo contesto, la testimonianza di cui siamo portatori non ha fini moralizzatori – il giudizio è il “nemico diabolico” della storia, sosteneva lo storico francese Marc Bloch – non siamo nemmeno testimoni di un processo (dove la testimonianza è lo strumento e la prova stessa che permette di determinare dei capi d’accusa) ma, come ha detto il vescovo Savino arrivando a Odessa con una cinquantina di partecipanti alla Carovana della pace, «siamo qui, con i nostri corpi, con le nostre vite, con tutti i nostri limiti. Siamo qui senza alcuna presunzione, senza alcuna spocchia, a dire che la pace è possibile».
Le iniziative e le marce per la pace in Ucraina, gli aiuti organizzati da governi, istituzioni e da singoli cittadini, i corridoi umanitari, l’ospitalità diffusa offerta ai rifugiati, l’ascolto delle loro storie costituiscono di per sé testimonianze militanti del fatto che la pace è possibile e rappresentano un controcanto alla manipolazione storica, alla propaganda e all’informazione dell’allarmismo, rappresentano una narrativa positiva, impaziente di futuro perché come sosteneva un altro Ernst Bloch, filosofo tedesco questa volta, «solo quel ricordare è fertile che nello stesso tempo ricorda quello che c’è ancora da fare».