Ucraina significa “paese frontiera” e, storicamente, l’Ucraina è stata davvero un territorio di confine fra civiltà sedentarie e nomadi, fra il mondo slavo-cristiano e quello turco-tartaro-mussulmano, crocevia di scambi commerciali dal mar Nero al Baltico, dall’Oriente all’Europa centrale. Significa “paese frontiera” anche se, geograficamente, di frontiere non ne ha. E questo l’ha resa a più riprese terreno di manovra nei conflitti armati e ha favorito l’intrusione di potenze straniere che hanno fatto passare sotto la loro dominazione porzioni delle sue terre, senza considerarla un paese indipendente e uguale, ma un’appendice, l’‘ucraina’ dei propri stati. Assorbita inizialmente dall’impero zarista, poi da quello sovietico, la sua lingua è stata considerata un dialetto russo e la sua storia parte delle storie russe, polacche o sovietiche.
Con la Rivoluzione d’Ottobre del 1917 e la caduta del regime comunista nel 1991, il XX secolo potrebbe essere delimitato dalle date di nascita e di morte dell’Unione Sovietica. La perestroïka ha lasciato una costellazione di paesi in crisi economica e politica, oltre che identitaria, milioni di persone deluse dalla democrazia e dall’economia di mercato, migliaia di migranti in cerca di lavoro. I loro ricordi, oggi, evocano un mondo che non esiste più, una Storia passata, lontanissima, perlomeno nella percezione che se ne ha.
«Sotto il comunismo, in tutta l’Unione Sovietica erano stati istituiti dei kolchoz – spiega Iuliana, migrante ucraina a Parma – Le terre, gli animali, i mulini erano stati messi in comune. Ogni paese aveva il suo kolchoz, tutti i paesani ci lavoravano e ciascuno aveva il suo salario. Finito il comunismo, le terre del kolchoz sono stati divisi fra le famiglie che ci hanno lavorato, i macchinari e gli utensili venduti e i soldi divisi in parti uguali». Iuliana non rimpiange il comunismo: «Era una grande menzogna. Diceva quello che si doveva fare e quello che non si doveva fare, come una religione». «Io sì, lo rimpiango, invece – controbatte Svetlana – Perché se ci fosse ancora, non dovremmo lasciare le nostre famiglie, i nostri figli e partire a fare le migranti». «Fino alla perestroïka tutti avevano un lavoro ma non c’era libertà, ora c’è libertà ma non c’è lavoro».
Gli anni Settanta e Ottanta, in Ucraina, risentono di forti tendenze russificatrici, ogni aspirazione nazionale è repressa e l’adozione di una lingua non russa in seno alle istituzioni, così come la pratica religiosa o il rifiuto di prendere la carta del partito comunista, sono scelte che vengono punite. La polizia segreta sovietica attacca intellettuali, storici e scienziati, la stampa e ogni altra pubblicazione passa al vaglio della censura: «All’inizio del Novecento, della grande fame in Ucraina – dice Faina – in cui sono morti milioni di persone, della breve Repubblica ucraina e degli intellettuali che non sono più tornati dai gulag non si parlava. Il mio maestro diceva: “Ragazze, sapete, la nostra storia non è così, come è scritta nei libri, la storia dell’Ucraina è molto tragica”».
La Grande carestia 1932-1933, o Holodomor, definisce un’ecologia del “mal morto” – defunti che non hanno avuto sepoltura e che continuano ad agire nella psiche collettiva – che può portare a pensare che i gulag, Chernobyl, fino ai più recenti conflitti possano essere letti come una riattualizzazione di questo dramma. Il numero di morti – sei milioni secondo alcune fonti, undici secondo altre – è stato notevolmente superiore a quello dei paesi circostanti e ha dato peso alla tesi secondo la quale Stalin aveva intenzione di decimare di fame il popolo ucraino per spezzarne la resistenza. La carestia, infatti, dovuta a cause naturali, è stata poi alimentata da una politica brutale di confische dei cereali da parte della Russia, di purghe, repressione e deportazione dei dissidenti alla collettivizzazione forzata della campagna sovietica e alla politica di de-ucrainizzazione imposta da Mosca.
Gli anni Novanta, con la scoperta delle fosse comuni, il ritorno dai campi di molti prigionieri politici, la messa in discussione dei tabù storici e le riforme di Gorbačëv hanno favorito una diminuzione dell’oppressione politica e civile, e una rinascita delle forze d’opposizione. Sono anche gli anni, però, dell’esplosione di Chernobyl, nel 1986, seguita poco tempo dopo dall’esplosione dell’intero continente socialista. «Sai cos’è il fuoco, il fumo, ma l’atomo non si vede, non si sente, non si prende sul serio e Chernobyl è una tragedia che non ancora oggi non si è assorbita. Come quella del regime comunista» commenta Ana.
Con la caduta del regime comunista, l’Ucraina ottiene l’indipendenza. Malgrado le promettenti possibilità del paese, un’industria ben sviluppata e un’agricoltura relativamente forte, l’inflazione impenna e l’economia non smette di crollare, situazione aggravata da debolezze strutturali e una privatizzazione non trasparente. L’ondata migratoria delle lavoratrici ucraine in Italia comincia allora e prosegue per tutto il 2000, fino a oggi. Seguendo il palinsesto di combinazioni storiche e personali, la migrazione diventa per loro, e le loro famiglie, una vera e propria strategia d’esistenza, un’altra pagina delle vicende ucraine perché «un avvenimento raccontato da una sola persona è il suo destino. Raccontato da tanti, diventa la Storia» (Svetlana Alexievitch, premio Nobel per la letteratura, di madre ucraina e padre bielorusso).
Sono donne che partono da una società essenzialmente agricola e trovano impiego come assistenti domiciliari nella nostra società di servizi, ottengono poco alla volta uno statuto regolare e buoni stipendi. Quella migrazione che avevano creduta circoscritta, si protrae per anni, anni che passano, seguendo sullo schermo dei loro cellulari, la danza fluttuante di presidenti pro-russi e filo-europei, la rivoluzione arancione e quella di Maiden, l’occupazione russa della Crimea e della città di Sebastopoli, i combattimenti nel Donbass e gli accordi mai rispettati di Minsk.
«Ho compiuto settant’anni – racconta Nadiya – ho l’età della pensione. E per la pensione, mi ero ripromessa di tornare a casa. Non mi decidevo mai, però, perché sono legata a Parma. Poi, col Covid, mio marito ha detto che se doveva morire, voleva essere nel nostro paese. In tanti, pensavano che eravamo matti a lasciare l’Italia proprio in quel momento, che in Italia almeno ci sono gli ospedali per curarci. Ma eravamo decisi e siamo tornati. Allora non sapevamo che non era il Covid, la maledizione. A noi ucraini, ne tocca un’altra: Putin». E pochi giorni dopo, il un messaggio WhatsApp: «Abbiamo le valige fatte, pronti a scappare da un minuto all’altro. Non per lavoro stavolta, stavolta da rifugiati».