Qualche settimana fa, degli amici avevano ospitato una famiglia ucraina di passaggio verso Porto, tre generazioni di donne, in viaggio con due cani e un canarino.
La nonna portava con sé anche un vaso con una piantina del suo giardino, da mettere sulla tomba di quel paese straniero dove sarebbe stata sepolta. La situazione è troppo complicata, infatti, e lei troppo affaticata per sperare di tornare.
Il racconto di questa comitiva e della sua matriarca era circolato per giorni, e ciascuno le aveva immaginate a modo suo, insistendo su un dettaglio o inventandosi il seguito. Sono tante le storie di profughi ucraini che hanno un’eco, e non solo quelle che fanno la copertina dei media, come nel caso del sessantenne apparso sulThe Guardianche si era messo in salvo da Mariupol’ percorrendo duecentoventicinque chilometri a piedi col suo cane. Ha fatto il giro del mondo la vicenda del bambino di undici anni che la madre aveva messo su un treno con l’indirizzo dei parenti a Bratislava scritto su un braccio (lei era rimasta a Zaporozhye con la nonna malata); o del soldato che aveva chiesto di fare arrivare al fratello un biglietto con la mappa dell’asilo dove aveva seppellito la madre; o della coppia dell’acciaieria di Azovstal che, in pieno assedio, si era sposata confezionandosi le fedi con la carta stagnola.
Ma perché, nella massa d’informazioni, inciampiamo in queste storie, le leggiamo senza saltare una riga e le raccontiamo a nostra volta? Perché non ci limitiamo agli articoli di geo-politica, ai dati sull’armamento e gli aiuti umanitari o alle analisi dell’impatto economico del conflitto?
Le storie (auto)biografiche riflettono un mondo particolare, che in questo caso specifico si snoda nel punto esatto di congiunzione fra le traiettorie individuali e la grande Storia. E questa convergenza non solo ci tocca (gli «eroi», poi, sono persone qualsiasi e l’identificazione è immediata) ma rende intellegibili e vicine vicende che altrimenti ci eccedono, offrendoci gli strumenti per una loro comprensione affettiva e intellettuale.
Dare alla guerra una dimensione narrativa significa distinguere l’umano dal disumano, i vivi dai morti, il trauma dalla resilienza, significa mettere parole e immagini su eventi che trascendono l’immaginabile, per comprenderlo e condividerlo, e perché i dolori diventano più sopportabili se inseriti in un racconto. Il racconto segue, non prevede lo scorrere delle azioni, e rivela il significato di una storia senza commettere l’errore di definirla o, come dice Hannah Arendt, «rivela il significato di ciò che altrimenti rimarrebbe una sequenza intollerabile di eventi».
Il racconto, infatti, fa riferimento a una memoria culturale e sociale che non esclude la guerra, ma non si riduce né di risolve in essa. Non si accontenta, cioè, della diagnosi del trauma ma la iscrive all’interno di quelle reti di significato che danno senso all’esistenza e che ammettono l’istinto di sopravvivenza, la resilienza, la capacità umana di uscirne perfino migliori. Ogni persona, da protagonista o da testimone, da autore o da lettore, ha bisogno di questa prospettiva perché una volta iscritte nel racconto le rotture hanno una possibilità di rientrare in un ordine nuovo, terapeutico. E se è vero che non c’è racconto senza crisi, non c’è guerra, senza racconto. «Ci penso sempre – dice Vera – fino a quando morirò, penserò a ciò che è passato. Non ci credo quando qualcuno dice che non riesce a pensare a ciò che ha passato, perché ci si ricorda, tutta la vita. Resta sempre nella testa, tutto resta, il male, ma anche il bene».
Portiamo avanti una narrazione quotidiana e un lavoro involontario di memoria, personale e collettivo. Nella testa, sugli occhi abbiamo impressa l’eredità di coloro che ci hanno insegnato a parlare, a guardare, di coloro che ci hanno educato, accompagnato o semplicemente aspettato. E la memoria collettiva che apprendiamo e trasmettiamo non è altro che la valigia nella quale infiliamo le nostre storie particolari, compresa l’esperienza primaria della guerra – diretta o indiretta – e quella necessaria della pace. «Mi vedo con Svetlana – dice Tatiana, immigrata in Italia – Ci parliamo al telefono… Quando chiamo a casa, se è successo qualcosa, subito le dico: “Svetlana, ascolta, è successo questo, ho saputo quello…” Ci raccontiamo le cose che succedono in paese, è una cosa che mi fa vivere. Quando parliamo dei nostri a casa, di quello che hanno fatto, di quello che hanno detto mi sembra di essergli più vicina. Oggi, per esempio, Svetlana mi ha detto che ha parlato con sua figlia, sua figlia è andata al mercato e ha visto mio marito e sono contenta anch’io. Sta bene: mio marito è andato al mercato. Va tutto bene».
Nasciamo in una Storia a noi preesistente, in un racconto che ci contiene e che ci dà le parole per la nostra personale narrazione, perché siamo raccontati dalla Storia nella quale nasciamo e nell’esperienza narrativa prendiamo coscienza della nostra identità e del nostro passato individuale e collettivo. Infatti, come scrive di nuovo Hannah Arendt, : «Che ogni vita individuale fra la nascita e la morte sia raccontata un giorno come una storia con un inizio e una fine è la condizione prepolitica e preistorica della storia, la grande Storia senza un inizio e una fine».