Sopra a Olga, abitavano degli ucraini, tre o quattro uomini e una ragazzina, figlia di uno di loro, arrivata da poche settimane. Fu lei che un pomeriggio, di ritorno da scuola, bussò alla porta di Olga e le chiese se poteva darle una mano per un tema. Olga la fece entrare in casa e le fece ripetere la domanda. Si rese conto che parlava bene l’italiano, ma continuava a non capire cosa volesse da lei: «Puoi fare i compiti da me, se vuoi – le disse – Ma non ti aiuto, quello no. Non per cattiveria, veh, è che non ho studiato, ho finito le elementari alle serali. Faccio uno sforzo a parlarti italiano per esempio. Cioè, me la cavo, ma non è che mi viene proprio naturale… Scrivere, poi, è ancora un altro paio di maniche. Hai capito, no? Non è che non voglio aiutarti, ma è meglio se chiedi a qualcun altro… Vieni, comunque, accomodati». La ragazzina appoggiò la cartella per terra e si sedette al tavolo della cucina. «“Il quartiere dove vivo” – riprese – È il titolo del tema che mi ha dato il prof. d’italiano». Olga corrucciò le sopracciglia. «Il quartiere dove vivi? Intendi questo? Il mio? Questa è bella! So tutto di questo posto, ti posso dire quello che vuoi!» Si tirò su le maniche, esitò: «Che sia chiaro, comunque, ti do le informazioni, ma se sbagli le acca o cose del genere, io non c’entro. Va bene? Partiamo da qui: piazzale San Lorenzo. Al numero 16 si trova la Premiata Tintoria Rampini». Olga la portò alla finestra e le indicò la scritta “tintoria” sotto il cornicione del palazzo di fronte. Il laboratorio era sul retro, le raccontò, ma l’odore delle tinture usciva fino in strada. I figli del tintore si erano succeduti al padre, uno si occupava dei colori scuri e l’altro dei chiari. Le due cognate, invece, stiravano nel retrobottega e quando avevano molto lavoro, o che una delle due si ammalava, chiamavano lei. «Ho avuto modo di conoscerli bene, i Rampini, e ti posso assicurare che i premi che hanno ricevuto li meritavano davvero, parché tutt i lavoron, mo ch’a lavora ben a gh’n’é poch». Il dialetto le usciva di bocca senza volere e lei lo allontanava con un gesto di mano, come si fa con le mosche. Era zona di tintorie, quella, perché il Naviglio scorreva proprio lì. Le stava indicando il punto esatto quando, in fondo alla strada, videro il padre della ragazzina rientrare. «Di già? Ma è ancora presto!… – protestò Olga – Bisogna che torni, non ho finito. Per quand’è il tema? Vieni domani dopo la scuola. Vedrai, saprai quello che c’è da sapere».
Congedata la ragazzina, Olga aveva disegnato su un pezzo di carta una pianta del quartiere annotando, a margine, le cose importanti. E per due volte aveva fatto la bella copia. Ci aveva messo un tale impegno, in quel compito, da dimenticarsi di cenare. La ragazzina era tornata per due pomeriggi di fila, ascoltava senza interrompere e Olga, dal canto uso, si adoperava a parlare bene.
Aspettò per tutta la settimana successiva che la ragazzina passasse a dirle com’era andata. Cercava di farsi un’idea di quanto tempo potesse prendere la correzione di un tema e di quanti ne avesse l’insegnante. Erano domande di cui non conosceva la risposta, però, perché non sapeva nemmeno come si scriveva un tema. Alle serali, davano solo “piccole composizioni” o “pensierini”. Poi, iniziò a preoccuparsi che la ragazzina avesse avuto un brutto voto, che le spiegazioni che le aveva dato non andassero bene. E il pensiero le aveva perfino tolto il sonno.
“Tema: Il quartiere dove vivo. Svolgimento: Sono nata in campagna, in una casa con il giardino e l’orto, il profumo delle mele e dei ciclamini. Della città, mi raccontava la mamma nelle sue lettere, i palazzi incollati, le file di vetrine e le macchine in continuazione. Mi aveva detto che non c’erano boschi né un lago in cui nuotare. E mi aveva spiegato anche l’appartamento che il papà divide con Yuri e Leonid, e a volte, con lo zio Vasyl e mio cugino Andrij, o altri compaesani di passaggio. La mamma mi voleva fare vedere con le parole quello che avrei visto gli occhi. Non è stata lei a sbagliare, sono io che non ho saputo immaginare. Io e papà abbiamo una camera da letto piccola piccola, che è solo nostra però, perché gli altri si dividono la sala dove si aprono fino a sei brande. Non vedo il cielo dalla finestra, solo il palazzo davanti e, giù, i borghi stretti. La vicina di sotto mi ha disegnato una mappa del quartiere che sembra un imbroglio di rovi, proprio come pare a me nella realtà. Per lei, invece, non c’è niente d’ingarbugliato, perché qui ci è nata e sa parlare dei palazzi come se fossero suoi cari. Se poi le viene in mente di qualcuno che ci è morto, si fa il segno della croce e si commuove. Mi ha consigliato dove comprare il pane, anche se il pane lo faccio di sabato con la mamma per tutta la settimana. E mi ha detto in quale chiesa andare, ma non le ho detto che non siamo della stessa religione. Mi ha parlato anche del quartiere com’era una volta, con la tintoria, i canali e i bambini che giocavano nelle pozzanghere. I bambini, in dialetto parmigiano, si chiamano proprio così, pistapòci, “pestatori di pozzanghere”. La mia vicina è abituata a parlare in dialetto più che in italiano e non sempre la capisco, ma non glielo dico perché è talmente contenta quando vado da lei che sembra che le faccia un regalo. A stare con lei, però, ho paura d’imparare l’italiano sbagliato, per questo non ci voglio andare, anche se quello che so del quartiere, lo devo a lei, e mi fa strano sapere tante cose, proprio io, che non c’entro niente”.
«È stata la mamma a insistere di portarle il tema – si giustificò la ragazzina – Ha detto che era giusto che glielo facessi vedere. E ha detto anche, che sono responsabile di quello che scrivo… È che avevo paura che ci rimanesse male». «Beh, piacere non mi ha fatto, no. Sei andata a dire a tutti che non so parlare in italiano! Che figura ci faccio? Cioè, è vero, ma non è mica necessario sbandierarlo ai quattro venti! E poi, dove sono tutte le cose che ti ho raccontato? Nemmeno la madonnina votiva hai messo, che è così bella! O il palazzo Pallavicino. È nobiliare, sai?… L’ho letto tre volte, il tuo tema, e alla fine mi sono detta che dovevo prendere il buono che c’è, per esempio, che hai scritto molto… Io non so se saprei scrivere tanto io… Cioè, ho messo da parte il risentimento, anche se proprio non ho capito perché il professore è stato tanto contento: “Tema personale e ben scritto. Otto”. Forse, perché hai fatto pochi errori…» La ragazzina, allora, le confessò di aver fatto rileggere il tema a sua mamma prima di consegnarlo al prof. Sua mamma era una badante, e abitava a casa della signora di cui si occupava, ma al loro Paese era un’insegnante di lingue. Quando aveva capito che le sarebbe toccato emigrare in Italia a lavorare, si era avvantaggiata imparando la lingua. Aveva insegnato anche a lei: «Il giorno in cui la mamma è partita, conoscevo già l’alfabeto, tante parole e alcune frasi. Dall’Italia, poi, mi mandava dei libri. E aveva iniziato anche a scrivermi in italiano e io cercavo di risponderle così. Imparare l’italiano era un modo per starle vicina, per stare con lei». Olga la ascoltò con attenzione e sospirò: «Tua mamma è una brava insegnante a giudicare da come scrivi, che prendi otto anche se non dici niente del quartiere…» E s’illuminò: «Dovrei chiederle di insegnarmelo anche a me, l’italiano. Sì, scriverò dei temi e glieli farò correggere. E nel frattempo che lo imparo, io e te possiamo vederci stando in silenzio o dirci solo cose facili, che non ci si può sbagliare, tipo “Oggi è bello” o “Il pesto alla genovese non c’è verso di digerirlo”. Io ho sempre fatto così, d’altronde, senza tanti discorsi da politici. E del quartiere non mica molto altro da aggiungere… Basta, quindi, di chiacchiere ne abbiamo fatte abbastanza per oggi. Dimmi solo se ti va un tè».
La versione originale di questo racconto è pubblicata in Parma. I narratori raccontano la loro città, Diabasis Edizioni 2019.